La signora Eleonora S.

Come vi dicevo, facevo il precario in una scuola di Padova.

Ora, io di Padova e dei padovani non ne sapevo un bel nulla. Cioè, sapevo quello che si deve sapere, Sant’Antonio, Cangrande della Scala, il Rinascimento, Galileo Galilei, la cappella degli Scrovegni e tutte le menate che avevo studiato, ma per il resto non è che ne sapessi molto. 

Sapevo che le cose hanno un nome diverso da come ero abituato, del tipo che l’espressino lo chiamano marocchino, che hanno la o chiusa invece che aperta, e tutte quelle stronzate che vuoi o non vuoi ti entrano nella testa. Ah sì, in quegli anni la Lega Nord spaccava e io ero uno di quei terroni che secondo Umberto Bossi andavamo lì a fregare il lavoro e che era meglio se rimanevamo sulle nostre palafitte.

Così, quando Eleonora S. si presentò tutti i martedì per parlare di come andava suo figlio, io pensavo che fosse semplicemente una mamma del nord preoccupata di come andasse suo figlio. E pensavo pure che la minigonna, la scollatura, il rossetto eccetera eccetera fossero il modo di vestire e di truccarsi di una donna del nord. E di fronte a tutta quella gentilezza rispondevo con altrettanta gentilezza.

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