Piccoli gesti

Il papà della signora Eleonora S. doveva essere un dannatissimo gigante o giù di lì. Mi andava tutto troppo largo. I pantaloni strascinavano per terra, le maniche della camicia erano enormi e facevano vistosi sbuffi sulle braccia, il gilet mi arrivava alle cosce e la giacca pendeva quasi fosse una gonnella. Vogliamo parlare delle scarpe? Enormi e con la suola così liscia che potevo andarci a sciare. 

Ma che ci potevo fare? Eh? Ditemi voi, che potevo fare? Niente, ecco che potevo fare. Un bel niente di niente! Solo alzarmi e darmela a gambe. E ci provai, se è per questo. Mi alzai e tutto, ma sulla porta chi ti trovo? La signora Marta G. con un sorriso senza dentiera, tutta allegra.

«Edoardo, mio caro, la colazione è pronta.»

Beh, a dire il vero mi era venuta un po’ di fame e già che c’ero…

«Vengo… ehm… mia cara…»

Di là c’era una donnona grande e grossa, biondissima, lo sguardo stanco. Mi guardò con aria truce. Anche un po’ schifata. Non so se era per come ero conciato, per lo scandalo di un uomo in casa, per la telefonata nel cuore della notte o che altro. So che non avevo il coraggio di guardarla. Generalmente non sono una persona timida, ma considerate le circostanze…

«Signuor Eduardo, vuole caffè?» mi disse con un accento dell’Est.

«Sì, grazie. Lo gradirei molto. Grazie.»

«Sì, prende anche io uno poco caffè» disse. «Stanotte uno disgraziato chiamato telefono per fare scherzo di scimmunito!»

Non dissi nulla. Continuammo la colazione in silenzio. La signora Marta G. si smarriva nei suoi pensieri, poi mi guardava, poi tornava nel suo remoto chissà dove. Sorrideva sempre. Sdentata, ma sorrideva. E dannazione, denti o no, sembrava davvero felice.

«No preoccupa» fece la donnona bionda, «poi lei dimentica.»

«Sì» risposi. «Lei dimentica, ma adesso è felice.»

«Lei felice. Lei dimentica. Io no tanto. Ma questo no importa.»

«Mi dispiace, non volevo farla preoccupare…»

«Bene così. No importa.»

«Oh, voi due, smettetela! Basta litigare. Non è bene» disse la vecchietta. «La vita è un soffio e passa in fretta, fate la pace.»

Io non so qual è il gesto per fare la pace nell’Est Europa, così allungai verso di lei la mano destra con il mignolo sollevato, come ero solito fare da bambino. Lei fece lo stesso. Intrecciammo a mezz’aria le dita e dissi «Pace» e lei rispose «Pace», poi ridemmo tutti e tre come piccoli esuli innocenti.

In quel momento, mi mancarono tremendamente mia madre e mio padre e tutta la mia famiglia. Ecco, per un precario costretto a girare qui e lì senza requie, gesti come questi riempiono di calore la vita, almeno per un po’.

Sull’uscio, la signora Marta G. mi raggiunse trafelata: «Edoardo, che fai? Esci senza soprabito e senza cappello. Che sbadato che sei! Congelerai, fuori fa freddo.»

Il soprabito era nero, in panno grezzo, e il cappello era un borsalino anni trenta, in tessuto scuro con la tesa. Prima di indossarli, mi avvicinai alla nonnina e l’abbracciai. Era ingobbita dall’età, aveva capelli radi, il viso rugoso e tutta pelle. A suo modo, era bellissima. Le stampai un lungo bacio sulla fronte.

«Edoardo, ma che hai per la testa? Sei sempre il solito. Ora va’, altrimenti si fa tardi!» e rise. 

«Ciao» dissi.

«Addio» rispose.

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